Una fotografia può cambiare il mondo?Siamo tutti costruttori di significati; cerchiamo sempre di dare un significato alle cose, agli eventi della nostra vita, ai nostri pensieri.
E quando le parole diventano pesanti, complicate, inascoltate, o non siamo in grado di dar voce a ciò che udiamo, utilizziamo un mezzo che ha sempre accompagnato l’umanità: il linguaggio artistico in tutte le sue forme.
L’arte ha sempre assolto diverse funzioni ed è certamente il modo più mistico per l’uomo di collegare due mondi: il visibile e l’invisibile.
È la manifestazione di un cambiamento, un’energia che si manifesta nel processo creativo e raggiunge il suo apice nella rappresentazione finale, una nuova “realtà oggettiva”.
Nel processo creativo, l’artista si connette al suo mondo simbolico, plasmandolo, fino a dargli una forma che definisce il suo pensiero.
Seguendo il pensiero di Winnicott, il prodotto diventa un oggetto transizionale, una zona intermedia tra il sé e il mondo esterno, tra interno ed esterno. Quell’oggetto diventa destinatario di diverse parti del sé e svolge funzioni cognitive e creative.
Una fotografia può cambiare il mondo?
Quasi certamente sì, almeno in parte; sicuramente può cambiare chi la osserva e chi l'ha scattata.
Secondo la psicoanalisi, la macchina fotografica – intesa come un'estensione di uno degli organi percettivi dell’apparato psichico, ossia la vista – ha il potere di collegare chi fotografa con il mondo esterno.
Il fotografo, per fotografare, deve poter uscire fuori di sé e creare un legame tra il suo mondo interiore, le rappresentazioni di quest’ultimo e ciò che lo circonda. Inoltre, egli è l’unico a decidere cosa immortalare della sua realtà, compiendo un atto di riproduzione e ricreazione.
È evidente come l’obiettivo della macchina fotografica si concentri sempre sul mondo interiore almeno quanto su quello esterno del fotografo, ma per quanto ricca di dettagli possa essere una fotografia, non sarà mai in grado di restituire quello che il fotografo ha vissuto, come atto percettivo, nel momento dello scatto.
Ecco allora che cambia la prospettiva.
Non più solo immagini create da un osservatore esterno, ma un racconto che nasce dall’interno.
E questo principio è valido anche per il soggetto fruitore di quell’immagine. Un’immagine racchiude sempre uno sguardo, o più precisamente un doppio sguardo: quello di chi la produce e lo sguardo di chi la osserva.
Mentre il contenuto/soggetto della fotografia rimane lo stesso, la persona che la guarda si evolve, è mutevole. Il significato di una fotografia non è fisso e assoluto, ma si adatta all’esperienza individuale e alle prospettive dell’individuo che entra in relazione con l’immagine stessa.
Il nostro “immaginario iconico” si modifica e si attiva ogni qualvolta entriamo in relazione con una fotografia, un’immagine.
Ognuno ha un proprio “linguaggio interiore” per categorizzare la realtà e codificare le proprie esperienze.
Quindi la fotografia diventa uno strumento per “catturare” ed “esprimere idee e sentimenti” in modo visivo simbolico e diventa una potente metafora personale.
Le fotografie non sono altro che schermi sui quali proiettiamo la nostra identità e la nostra memoria, cioè quello di cui siamo fatti e ciò che di noi non conosciamo.
Durante l’atto percettivo di una fotografia abbiamo il merito di “allungare la vita” dell’immagine originale re-significandola con il nostro personale carico emotivo e la nostra storia individuale.
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