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Dall’argento al pixel: la trasformazione della fotografia e la nostalgia dell’intimità perduta

Aggiornamento: 6 giu

C’è stato un tempo in cui per fotografare serviva pazienza.

Un tempo in cui ogni scatto aveva un peso, una forma, un’attesa.

Era l’epoca della fotografia analogica, della pellicola. Si scattava meno, ma si guardava di più. Ogni fotografia era un piccolo atto di meditazione, di scelta: bastava la luce giusta, un'espressione fugace, un momento che non si sarebbe più ripetuto.

La fotografia era un rito, e ogni foto sviluppata portava con sé l’impronta del tempo, della materia, dell’errore umano.

Poi è arrivato il digitale. Ed è stato come passare da una carezza a un clic.

Con l'avvento delle fotocamere digitali prima, e degli smartphone poi, la fotografia si è democratizzata. Chiunque, in qualsiasi momento, può scattare.

In teoria, è un trionfo: mai come oggi abbiamo avuto tanto accesso alla possibilità di fermare il tempo. Ma cosa abbiamo davvero guadagnato? E cosa, in silenzio, abbiamo perso?


Black and white film. Analog vs Digital photography.
Fotografia analogica - Pellicola in bianco e nero
Lo scatto facile e la memoria fragile

Nel passaggio da fotografia analogica a digitale, abbiamo guadagnato in quantità ma spesso abbiamo perso in qualità emotiva. Non tanto nella risoluzione delle immagini, quanto nella profondità dello sguardo, nella capacità di osservare davvero.

Oggi si scatta compulsivamente, per non perdere nulla – e finiamo per non ricordare nulla. Le foto si accumulano nei nostri telefoni come sabbia in un’ora di marea.

Migliaia di immagini, poche davvero viste, ancor meno rivissute.


Un tempo, le foto si stampavano. Si toccavano. Si annusavano. Si mettevano negli album, si passavano di mano in mano, si custodivano nei cassetti come segreti.

Ogni fotografia era un ponte verso un ricordo, un filo che ci legava agli altri e a noi stessi.

Oggi, le fotografie vivono in nuvole digitali, dimenticate tra migliaia di file. Paradossalmente, fotografiamo tutto ma ci sentiamo più scollegati. Più soli.

L’occhio interiore e il tempo della contemplazione

La fotografia analogica ci costringeva a vedere prima di scattare. A immaginare. A comporre. Ogni immagine era un investimento emotivo.

Il limite dei 24 o 36 scatti per rullino era una scuola di attenzione: ci educava a selezionare, ad aspettare. E nell’attesa si creava uno spazio interiore, quello dove la fotografia prendeva davvero vita.

La fotografia digitale ha invece accelerato il processo. Oggi vediamo attraverso uno schermo. Usiamo filtri prima ancora di capire cosa vogliamo vedere. E spesso scattiamo per mostrarci, non per ricordare.

La psicologia ci insegna che il modo in cui registriamo i ricordi è profondamente legato all’intensità emotiva del momento. Quando scattiamo con lo smartphone, spesso viviamo l’esperienza a metà, perché una parte di noi è già proiettata all’idea di condividerla. L’attimo non viene più abitato: viene consumato.

Empatia, intimità e lo sguardo che accarezza

Eppure, la fotografia resta – può restare – un gesto d’amore. Uno sguardo che si posa sull’altro con attenzione. Che dice: “ti vedo, ti accolgo”. L’intimità non è morta, ma oggi va cercata con più consapevolezza. Forse, oggi più che mai, ce n’è bisogno.

La fotografia empatica non si basa sulla tecnica, ma sulla connessione. È uno scatto che non nasce solo dall’occhio, ma dal cuore. È quel tipo di immagine che ti fa sentire visto, non solo guardato. Che crea uno spazio di riconoscimento tra chi fotografa e chi viene fotografato.

Anche con uno smartphone, uno strumento spesso associato a velocità e superficialità, è possibile creare immagini autentiche, intime, vibranti. Perché ciò che davvero conta è l’intenzione dietro lo scatto.


Uno sguardo distratto produce una foto vuota, fredda, estetica forse, ma priva di vita.

Uno sguardo presente, profondo, rispettoso, invece, è capace di cogliere la fragilità, la forza, l’unicità dell’altro. Di trasformare quel clic in un gesto di ascolto.


Quando fotografiamo con empatia:

  • ci prendiamo il tempo di entrare in relazione,

  • ci chiediamo chi ho davanti, cosa sento, cosa sta accadendo davvero qui?

  • sospendiamo il giudizio, la frenesia, la performance.


E in quello spazio di silenzio tra due persone, qualcosa di vero accade.

La macchina fotografica diventa allora una protesi dell’anima, non un ostacolo alla relazione.

Non è lo strumento a creare empatia: è la nostra disponibilità a metterci in gioco, a essere toccati da ciò che vediamo. È scegliere di fotografare non per "ottenere" qualcosa, ma per restituire qualcosa: uno sguardo, una memoria, una presenza.

In questo senso, la fotografia può ancora essere un atto etico e poetico. Un modo per dire: “ti vedo, e questo momento conta”. E se quell’atto passa anche da un cellulare, poco importa. È il cuore che scatta, non il dispositivo.


Forse non si tratta di tornare indietro, ma di tornare in noi stessi. Di riappropriarci del tempo dello sguardo, del gesto lento, della scelta. Di chiederci: perché sto facendo questa foto? Per chi? Per cosa? Per ricordare, per custodire, per dire “tu conti per me”? O per riempire un vuoto, per scrollare l’ansia, per dimostrare che esistiamo?

La fotografia può ancora essere un atto poetico. Un modo per fermare l’inafferrabile.

Ma dobbiamo imparare a fotografare con il cuore, prima che con la fotocamera. A vedere davvero, prima di cliccare.


Side-by-side comparison of black and white analog film photography and digital photography, showing the different textures, tones, and grain characteristics of each medium.
Fotografia di paesaggio su pellicola
Il ritorno alla lentezza: scattare come una volta

Forse, allora, la risposta sta nel rallentare. Nel riscoprire la magia dello scatto pensato, meditato, atteso. Tornare a fotografare come un tempo non significa rifiutare la tecnologia, ma recuperare lo spirito con cui un tempo scattavamo: uno spirito contemplativo, intimo, essenziale.


Stampare una foto, incorniciarla, regalarla. Portare con sé una macchina fotografica per il gusto di osservare, non solo di documentare. Fare meno scatti ma più profondi. Guardare un volto e cercare di coglierne la luce interiore, anziché quella perfetta.

Tornare a fotografare come prima significa anche tornare a vivere pienamente gli attimi. Non lasciarli sfuggire mentre siamo occupati a registrarli. Significa amare lo sguardo, non l’immagine. Significa, in fondo, riconnettersi: con noi stessi, con l’altro, con il tempo.

Perché la fotografia non è solo ciò che vediamo. È ciò che scegliamo di sentire.


Loredana






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